Quando Greville Wynne, rappresentante di commercio, siede per la prima volta al tavolo con un'agente della CIA e uno del M16, non ha idea di chi siano veramente né di quello che stanno per domandargli. Non sa che l'intelligence occidentale vuole ingaggiarlo come corriere, sfruttando il solito viaggiare per lavoro nei paesi dell'Est, per portare a Washington le informazioni top-secret prodotte da una fidata fonte russa, Oleg Penkovsky. È il 1960, la catastrofe nucleare è alle porte, ma Greville Wynne non rischia nulla con il suo incarico. Finché non diventa una questione personale.
A cena a casa dei Wynne, per quella che spacciano per una trasferta d'affari, il pezzo grosso russo spiega al figlio dell'everyman britannico che i russi non odiano gli occidentali: i politici russi li odiano, ricambiati, ma lui è lì, alla loro tavola, con la loro famiglia, e non è certo l'odio il sentimento nell'aria.
Forse è in quel momento che Greville capisce che il mettersi in gioco di Penkovsky non è solo ideologico ma è anche umano, di certo lo capiamo noi spettatori, che viviamo il resto del film come una conferma. Non è, infatti, il fattore sorpresa a speziare L'ombra delle spie, ma solo il buon lavoro degli attori, Cumberbatch e Ninidze, ma anche Jessie Buckley nei panni della moglie di Greville, e la tensione che permea, nella realtà storica e nelle tante occasioni cinematografiche che l'hanno sfruttata, il periodo della crisi dei missili di Cuba.